Esame di Maturità

Allievo: Marco Canonico Classe 5° sez.B

 

STORIA


L’Italia e la Prima Guerra Mondiale

 

 

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·     L’Antefatto

·     Interventismo e Neutralismo 

·     L’ingresso in Guerra

·     Caporetto

·     La battaglia del Piave

·     IV Novembre - La Vittoria!

·     La Vittoria Mutilata

·     Modifiche sociali dopo la Guerra

·      Alba del fascismo

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Antefatto

http://t1.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcSOapcBEvqWulBF0bWBlj5FKoOw758JtRWL8VrQy9g7QPfstmZPeAL’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914, ad opera dello studente serbo Gavrilo Princip, costato la vita all’arciduca ed erede al trono asburgico, Francesco Ferdinando, e a sua moglie Sofia, fu la miccia che fece esplodere la "polveriera" Balcani, dove le regioni slave sottomesse all’impero Austro-Ungarico stavano maturando sentimenti irredentisti volti alla conquista dell’indipendenza.  A sua volta, l’Austria - Ungheria era una potenza sempre più in crisi ed in declino che, già provata dall’espansione della Germania e dalle sconfitte subite dall’Italia, nel corso delle guerre d’Indipendenza, si vedeva ora minacciare anche i territori balcanici, sotto la spinta destabilizzante di una Serbia accusata di favorire il malcontento delle popolazioni slave suddite di http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/d/d1/Gavrilo_Princip_assassinates_Franz_Ferdinand.jpgVienna.

 

L’uccisione dell’erede al trono era dunque una provocazione che non poteva essere lasciata impunita e, anche se solo dopo la guerra si ebbero conferme del legame tra Princip ed ambienti sovversivi serbi, vicini al governo, all’impero di Francesco Giuseppe sembrò giunto il momento di liquidare il problema Serbia, contro cui fu lanciato un ultimatum dalle condizioni durissime ed umilianti.

 

Sebbene le autorità di Belgrado, pur di evitare lo scontro armato ed il sicuro annientamento, mostrarono la disponibilità ad accettare gran parte delle clausole, la risposta fu ritenuta insoddisfacente e così l’Austria, dopo essersi assicurata l’appoggio dell’impero tedesco, il 28 luglio 1914, dichiarò guerra alla Serbia, scatenando l’inferno in un‘ Europa allora caratterizzata da delicati meccanismi di alleanza militare tra i vari stati, figli degli eventi e delle tensioni maturatesi negli anni precedenti: se gli Austro-Ungarici erano forti del legame con il reich tedesco di Guglielmo II, a difesa della Serbia scesero in campo la Russia zarista e la Francia, mentre, invece, l’Italia, legata agli imperi centrali da un trattato difensivo, e che dunque prevedeva l’intervento solo in caso di aggressione, appellandosi al fatto che era stata l’ Austria ad attaccare, senza neppure consultarla, si dichiarò neutrale.

 

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La cartina d’Europa allo scoppio della prima guerra mondiale

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Interventismo e neutralismo

Quello che, nelle intenzioni di tutti, doveva essere un conflitto di stampo ottocentesco e, quindi, di breve durata, si tramutò, viceversa, da semplice questione austro-serba, in una tragedia sempre più ampia, fino ad assumere, per il numero di paesi coinvolti, una dimensione, prima europea e poi mondiale: dopo gli avvenimenti di Sarajevo, infatti, nel giro di poche settimane, l’Europa intera dimenticò i fasti della "belle époque" e si trovò coinvolta in prima linea, con l’unica eccezione del nostro paese.

Allo scoppio delle ostilità, nel giugno del 1914, il regno d’Italia, legato ad Austria e Germania da un trattato difensivo, dichiarò la propria neutralità, in quanto era stato proprio l’impero di Francesco Giuseppe a scatenare la guerra, senza, peraltro, nemmeno consultare la giovane monarchia di Vittorio Emanuele III.

La scelta operata consentiva di prendere tempo per decidere il da farsi e, nel contempo, permetteva di sganciarsi dal rapporto instaurato, negli anni precedenti, con una nazione che rimaneva pur sempre il nemico storico e, come tale, invisa alla popolazione.

Per tutto il periodo che ne seguì, il paese fu travolto dal contrasto che nacque, sempre più ampio ed incontenibile, tra interventisti e neutralisti; la lotta fu aspra: a favore della neutralità si schierò la stragrande maggioranza del parlamento, tra cui i giolittiani, i cattolici e i socialisti, convinti che fosse più conveniente ottenere dall’Austria concessioni territoriali, in cambio della non belligeranza; favorevoli all’intervento furono, invece, gli irredentisti e personalità come D’annunzio e l’allora direttore dell’"Avanti" Benito Mussolini, tutti convinti che fosse giunto il momento di completare l’annessione delle terre "irredente"ancora sotto dominazione austriaca.

Particolare attenzione merita, in questo contesto, la figura del futuro duce: iscritto al partito socialista, direttore dell’"Avanti", passò dal sostegno alla causa neutralista, al più acceso interventismo, che gli provocò, nel novembre 1914, l’espulsione da un partito che più di ogni altro si stava battendo per impedire l’ingresso in guerra dell’Italia.

Dopo l’allontanamento subito, Mussolini si attestò su posizioni di stampo nazionalista, confermando tutto il suo appoggio per la politica di intervento, sostenuta, con veemenza, dalle pagine del Popolo d’Italia, il giornale da lui fondato a Milano, il 15 novembre 1914.

 

http://t2.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcQDVcl_C0DIkDWeSl5vq-MSDawz9ZewNRdnhhMMel5hJVbeLGzAFu l’episodio chiave nella vita di un uomo che avrebbe sconvolto i destini di un paese, destinato, nel giro di pochi anni, a cadere preda di una terrificante e spietata dittatura, che trasse le sue fondamenta proprio dagli eventi legati al conflitto tra interventisti e neutralisti, e proprio dalla conversione politica che ne seguì, che lo portò a diventare la futura guida del movimento fascista.

Anche grazie alla trascinante arte oratoria di D’Annunzio, che infiammò le folle con discorsi esaltanti la lotta per Trento e Trieste, la stampa italiana sposò decisamente la causa interventista, che ottenne consensi sempre più ampi, fino ad arrivare a conquistare i favori del re e del governo presieduto da Salandra; muovendosi sul filo della diplomazia, dopo aver cercato, invano, nonostante le pressioni tedesche, di ottenere, da Vienna, in via pacifica, le terre irredente (il ministro degli esteri asburgico Burian dichiarò testualmente: "Se qualcuno mi punta una pistola scarica, non gli do il mio portafoglio, ma prenderò una decisione quando la pistola sarà carica"), rappresentanti del governo firmarono, il 26 aprile 1915, a Londra, un patto d’alleanza con le forze dell’Intesa, con il quale l’Italia si impegnava ad entrare in guerra, in cambio del riconoscimento dei diritti su Trentino, Alto Adige, Trieste, Istria e Dalmazia.

La vittoria del conflitto avrebbe, dunque, permesso di coronare i sogni irredentisti di Unità nazionale di ottenere il controllo sull’ Adriatico e l’espansione verso i Balcani. I progetti del governo Salandra erano condivisi anche da Vittorio Emanuele III, che, dopo una iniziale prudenza, avallò la decisione di intervenire in quella che appariva, anche ai suoi occhi, come una sorta di IV guerra d’Indipendenza. Si trattava, ora di trovare il modo di scavalcare un parlamento ancora schierato su posizioni neutraliste e il cui rifiuto di ratificare il patto di Londra, indusse il Salandra alle dimissioni.

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L'ingresso in guerra

Di fronte alle crescenti e sempre più violente manifestazioni interventiste, il re decise di richiamare il Salandra, che riuscì nell’intento di ottenere, da un parlamento scosso dai tumulti e timoroso di contrastare le decisioni del re, poteri straordinari e, di fatto, l’autorizzazione all’entrata in guerra. La partecipazione al conflitto fu, quindi, di fatto, decisa, senza il consenso parlamentare e per volontà di due sole persone, il re e il presidente del consiglio.

Il 24 maggio 1915, dopo la dichiarazione di guerra all’impero Austroungarico del giorno precedente, il nostro esercito era già in marcia verso il confine.http://certosa.cineca.it/chiostro/Blob.php?ID=2056

 

Allo scoppio della guerra il capo di stato maggiore dell’esercito, Luigi Cadorna, si diceva certo di una rapida conclusione delle ostilità, attraverso una serie di "spallate" che avrebbero travolto le truppe austro-ungariche. Tuttavia, fin dall’inizio la realtà fu ben diversa: infatti il confine tracciato nel 1866, al termine della III guerra d’indipendenza, non era stato studiato, dal governo di Vienna, in modo superficiale. Infatti, aveva lasciato all’Austria il controllo dei passi e delle vette, fortificati con un complesso apparato di trincee e camminamenti difensivi.

 

Gli Italiani si trovarono così a combattere in condizioni di svantaggio, anche perché la superiorità numerica delle forze regie era vanificata da armamenti antiquati e non all’altezza.  Di contro, le armate asburgiche, pur inferiori quantitativamente, erano di gran lunga superiori qualitativamente e meglio organizzate, sia pure con tutte le difficoltà derivanti dalla loro natura multietnica.

Per tutti questi motivi e per l’insensata tattica di Cadorna, disposto a qualsiasi sacrificio di uomini, per raggiungere i fini sperati, l’esercito italiano, lanciato dal comando supremo all’assalto frontale del nemico, in ben undici battaglie sul fiume Isonzo, ebbe a lamentare un numero di perdite spaventoso, con l’unico risultato concreto della conquista di Gorizia, cui fece seguito, un vano e sanguinoso tentativo di avanzata verso Trieste, bloccato dalle imperforabili linee difensive austriache.

Le già dure sofferenze della guerra di posizione furono accentuate dalla natura impervia del fronte, che determinò combattimenti in condizioni ai limiti della follia, tra neve, ghiaccio e passi alpini inaccessibili; i problemi logistici che ne seguirono obbligarono i reparti del genio a ricorrere ad http://img444.imageshack.us/img444/2867/11nov17ho5.jpgespedienti di ogni genere per Fanti italiani in trincea, 1917consentire lo spostamento di truppe e mezzi a quelle quote.

 

I propositi del comando supremo, di una conclusione della guerra prima dell’inverno, si rivelarono, tragicamente, infondati , ed anzi furono gli Austriaci a prendere l’iniziativa, lanciando, nel 1916, la "Strafexpedition", la spedizione punitiva contro l’alleato traditore, ideata dal feldmaresciallo Conrad, che fece breccia tra  le  linee  italiane  ad Asiago; tuttavia,  la strenua  resistenza  e  il coraggio e l’impegno dei reparti italiani riuscirono, miracolosamente, a contenere il nemico e a respingerlo, a prezzo del solito, tremendo, numero di caduti.

 

Nonostante il coraggio dimostrato, il pesante tributo di sangue, le inutili perdite, le drammatiche condizioni di vita, determinarono, tra le truppe regie, non pochi episodi di insubordinazione , stroncati, con il consueto cinismo, dai vertici militari capeggiati da Cadorna, con centinaia di fucilazioni e con la tattica delle decimazioni; nel Carso, tra i monti dell’Adamello, dunque, si continuava, con spietata perseveranza, a morire, vanamente, a fiumi, non solo per mano nemica, ma anche per volontà dei tribunali militari e per opera dei plotoni di esecuzione, in un indicibile clima di terrore e violenza, tale da minare ogni resistenza psico-fisica.

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Caporetto

Il 24 ottobre 1917 gli Austriaci, forti dei rinforzi provenienti da Est, dopo la dissoluzione dell’esercito russo, lanciarono, con l’ausilio di reparti scelti dell’esercito del Reich, una violenta offensiva nella zona di Caporetto, travolgendo le linee italiane, nonostante la strenua resistenza delle nostre truppe, sfondando il fronte e dilagando nelle retrovie.

Le nostre truppe non ressero l’urto delle 37 divisioni comandate dal generale von Below, che fecero incetta di prigionieri e di armamenti; in pochi giorni,  tutto il Friuli venne invaso e la stessa Venezia sembrava in pericolo, sotto la pressione di un nemico che sembrava inarrestabile.

Devastazione dopo CaporettoLo sfondamento di Caporetto non fu colpa delle truppe.

L’Italia scese in guerra il 24 maggio 1915 con un armamento ancora deficitario: mancavano le artiglierie pesanti e relativo munizionamento, pochi erano i medi calibri e di scarsa gittata, mancavano le mitragliatrici e soprattutto mancavano le scorte di proiettili d’artiglieria necessarie a rimpiazzare i pesanti consumi che necessitavano ad ogni offensiva e che superavano la capacità produttiva dell’industria bellica.

Nelle condizioni in cui  si venne a trovare l’esercito italiano, nessun esercito al mondo, messo nelle medesime condizioni,  avrebbe potuto evitare quel che accadde.

La tesi di Cadorna, che addossava alle truppe la causa dello sfondamento, va ribaltata, perché da un accurato esame dei fatti, dedotti dagli ordini di marcia dei vari reparti, si evince che alla base di tutto ci fu la grossa mancanza da parte degli alti comandi di non aver previsto in tempo ed organizzato un passaggio dallo schieramento offensivo a quello difensivo. Il non aver pianificato per tempo uno schieramento difensivo, in modo che i vari reparti sapessero come ri-schierarsi in tempi ridotti, fece sì che il "fattore sorpresa" avesse successo. Inoltre l’esito della rivoluzione russa nell’estate del 1917 cambiò tutto lo scenario militare delle forze belligeranti in Europa: l’Intesa perse in poco tempo milioni di forze combattenti e resero disponibili agli Imperi centrali numerose unità da schierare di nuovo sui fronti italiano ed occidentale. Il comando Italiano non seppe valutare questo cambiamento e di conseguenza non prese alcuna misura che la nuova situazione richiedeva.

 

Trincee_8A Caporetto gli Austro-tedeschi attaccarono con 14 divisioni contro 3 divisioni italiane (da considerare che gli effettivi di una divisione austro-tedesca superavano di un terzo gli effettivi di una divisione italiana).

Il fatto che si pensasse ad una reazione di controffensiva dimostra sopra ogni dubbio che la valutazione dei nostri comandi circa lo spirito combattivo delle nostre truppe era più che buona e non giustifica la successiva denigrazione addossata ai combattenti.

Nei giorni che precedettero l’attacco austro-tedesco, notizie dettagliate portate da disertori diedero sufficienti motivi per correre ai ripari, ma in realtà la reazione dei nostri comandi fu confusa, movimentando numerosi reparti all’insaputa di altri e creando discontinuità delle forze schierate.

 

La ridislocazione dei reparti richiedeva una ricognizione del fronte e  accordi con i reparti a fianco, richiedeva, insomma, tempo che in realtà venne a mancare. Le artiglierie, per la mancanza cronica di colpi, non potevano inquadrare i bersagli e potevano intervenire solo su espresso ordine degli alti comandi, cosa disastrosa in caso di difesa.

La mancanza dei collegamenti e l’organizzazione verticistica del nostro esercito su cui Cadorna esercitava un controllo assoluto faceva sì che gli ordini emessi fossero già superati dagli eventi .

 

In tutti i combattimenti, le truppe italiane si difesero strenuamente e combatterono con valore. L’offensiva austro-tedesca divise in due lo schieramento italiano: da una parte la 2° e la 3° armata, dall’altra il resto del nostro esercito schierato verso Trieste. Se pensiamo oggi che la maggior parte dell’esercito riuscì ad arretrare sino al Tagliamento prima e a rischierarsi sul Piave poi, dal Grappa al mare, dobbiamo convenire che fu grazie alla tenace resistenza opposta dalle truppe, prive di coordinamento e di informazioni...  E questo esalta ancor di più il loro valore.

 

Non fu la mancanza resistenza delle truppe o il loro scarso valore morale, come prontamente avallato dalla casta militare, ma fu piuttosto una cecità del comando, unita a una pessima visione strategica e tattica, che impedì di prevedere gli sviluppi generati dalla resa russa.

 

Sul Piave fu un'altra cosa, che continuò la storia di eroismo e di sacrificio del combattente italiano.

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La battaglia del Piave

http://www.valianti.it/blogpress/art/uploads/2552005014107.jpgProprio quando l’Italia sembrava sul punto di cedere, avvenne però il miracolo: in tutto il paese si formò uno straordinario spirito di coesione nazionale ed anche i socialisti, da sempre contrari al conflitto, diedero tutto il loro appoggio per fronteggiare il nemico, contribuendo alla nascita di un governo di unità nazionale alla guida di Vittorio Emanuele Orlando, che lanciò, alla nazione, il vigoroso appello a "resistere" ad ogni costo.

 

Nel contempo il re decise di sostituire Cadorna con Armando Diaz e la scelta si rivelò giusta: il nuovo comandante dimostrò, a differenza del Cadorna, una grande sensibilità ed attenzione per la condizione delle truppe, cui venne riservato, finalmente, un adeguato trattamento; Diaz decise anche di porre fine alla scriteriata tattica degli assalti frontali, serviti soltanto a distruggere il morale dei soldati, che si vedevano considerati, dagli alti comandi, come degli agnelli sacrificali.

 

Grazie alle sue doti di profonda umanità, Diaz riuscì a risollevare le sorti di un esercito che, dopo il 24 ottobre, era prossimo alla liquefazione e che ora, ricostituito in tutta la sua vitalità e potenziato dai rinforzi alleati, sembrava in grado di contrastare l’avanzata nemica, come, effettivamente, fece.http://www.veja.it/wp-content/uploads/2010/07/generale-armando-diaz.318.jpg

Schierati sulla linea del Piave, gli Italiani il 15 giugno 1918, nella cosiddetta battaglia del solstizio, dopo aver respinto i numerosi assalti nemici, obbligarono le armate austro-tedesche, alla ritirata, come indicato, la sera del 23 giugno, dal generale Diaz nell’annuncio di una vittoria ("Dal Montello al mare, il nemico, sconfitto e incalzato dalle nostre valorose truppe, ripassa in disordine il Piave") che, di fatto, impedì l’invasione e la conseguente sconfitta dell’Italia; dopo la batosta subita, infatti, gli Imperi Centrali, esausti e distrutti nel morale, non furono più in grado di assumere, sul fronte italiano, alcuna iniziativa.

 

L’onta, l’umiliazione di Caporetto erano state, dunque, finalmente e definitivamente cancellate. Il trionfo ottenuto esaltò il genio militare di Diaz, dimostratosi valido stratega in una battaglia costata la vita a 250.000 persone; inoltre, esso mise in luce i nuovi reparti d’assalto dell’esercito italiano, gli "Arditi", che contribuirono non poco, con le loro incursioni, a sconfiggere il nemico.

 

Il Piave divenne, da allora, il simbolo dell’estremo sacrificio in nome di una patria salvata dalla tenacia e dal coraggio di decine di migliaia di combattenti, tra cui spiccavano i "ragazzini" della classe del 1899, chiamati alle armi per riempire i paurosi vuoti causati da tre anni di massacri e mattanze.

 

L’emblema della vittoria, da cui trasse origine la celebre canzone e il famoso detto "non passa lo straniero", divenne una casa diroccata e semidistrutta, recante una scritta destinata ad entrare nella leggenda: "Tutti eroi! O il Piave o tutti accoppati".

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IV Novembre - La Vittoria!

http://www.lastampa.it/_web/_rubriche/accadde_oggi/archivio/novembre/0411/img/041118G.gifDopo aver fermato l’avanzata degli imperi centrali, con le truppe di questi ultimi ormai impotenti e sulla difensiva, tutto sembrava pronto per un attacco volto a riconquistare i territori occupati e a spezzare, definitivamente, le linee austro-tedesche, debilitate dalle paurose perdite subite nella battaglia del Piave ed in crisi pure sul fronte occidentale.

 

I contrasti multietnici dell’esercito asburgico (formato da austriaci, ungheresi, croati, boemi, sloveni polacchi e bosniaci), anche a causa dalla difficile situazione militare, si stavano sempre più accentuando, provocando il progressivo sfaldamento dello stesso.

 

Diaz, tra il 24 e il 27 ottobre, ad un anno esatto dalla disfatta di Caporetto decise di lanciare la controffensiva finale: al termine di due giorni di aspri combattimenti, resi difficili dalle continue piogge, che avevano contribuito ad ingrossare le acque del Piave, i soldati italiani, dopo un primo momento di difficoltà, furono in grado di attraversare il fiume e di avere la meglio sulla vigorosa resistenza nemica; il massiccio attacco in forze condusse l’esercito regio fino a Vittorio Veneto, ove conquistò la vittoria decisiva, travolgendo e tagliando in due le armate di un impero che di fatto aveva già cessato di esistere come entità politica; Trento e Trieste vennero liberate e, ad un’Austria - Ungheria, ormai in piena dissoluzione, non restò altro che chiedere l’armistizio.

 

 

Il 4 novembre, il giorno della Vittoria: con un'offensiva iniziata il 24 ottobre del 1918, ad un anno esatto dal disastro di Caporetto, l'esercito italiano vince la prima guerra mondiale.

 

L'armistizio firmato a villa Giusti, presso Padova, il giorno 3, da Pietro Badoglio e dal generale austriaco, Victor Weber von Webenau , fissa infatti alle ore 15 del giorno 4 novembre 1918 la cessazione delle ostilità. Il comandante Diaz fu in grado, quindi, di dare lettura del bollettino della vittoria, che pose fine ad una guerra costata, al nostro paese, ben 700.000 vittime.

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La vittoria "mutilata"

 Nel 1919, dopo la sconfitta subita dalla Germania nella prima guerra mondiale, i rappresentanti degli stati vincenti si riunirono a Versailles per stabilire le condizioni di pace. Parteciparono ai negoziati (da sinistra a destra nella foto) Lloyd George, primo ministro britannico, Giorgio Sidney Sonnino, ministro degli Esteri italiano, Georges Clemenceau, primo ministro francese, e il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson.

 

La delegazione italiana si presentò a Versailles con grandi speranze, dettate dal decisivo ruolo che l’Italia aveva avuto nella sconfitta degli imperi-centrali, ma ben presto ci si rese conto che il clima della conferenza di pace non era tra i più favorevoli: i nostri delegati, che si aspettavano l’applicazione del trattato di Londra del 1915, si scontrarono contro l’ostruzionismo del presidente americano Wilson, poco propenso a http://www.lucadia.it/Vari%20scritti/Tesina/prima_3.gifriconoscere quanto era stato promesso al nostro paese ed, in particolare, l’annessione della Dalmazia e della città di Fiume, che, nel 1918, si era proclamata italiana.    

 

Di fronte alla fermezza di Wilson, Orlando e Sonnino, sdegnati ed irritati, abbandonarono i lavori, un gesto che ebbe conseguenze disastrose poiché, quando si trattò di decidere le sorti delle colonie tedesche, queste furono spartite tra le altre potenze, mentre l’Italia venne ignorata.

 

Il regno di Vittorio Emanuele III si vide riconoscere il Trentino, l’Alto Adige, l’Istria e Trieste, ma non la Dalmazia e Fiume, che sarebbe stata occupata, nel 1919, con un colpo di mano, da una spedizione guidata da D’Annunzio, alla testa dei suoi legionari.

L’umiliazione subita dai nostri delegati, a Versailles, creò, nel paese, già debilitato dalla crisi economica post-bellica, un clima di grande frustrazione e irritazione, alimentando la tesi della cosiddetta "vittoria mutilata", di un inutile sacrificio di morte e distruzione, vanificato dal tradimento delle altre potenze vincitrici.

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Modifiche sociali conseguenti alla guerra

In cifre la guerra era costata 700.000 morti e 1 milione di feriti tra cui 450.000 grandi invalidi. Il debito pubblico era aumentato da 15 miliardi di lire del 1915 a 69 del 1918. L’inflazione era cresciuta nell’ordine delle 10-12 volte rispetto al periodo prebellico. La disoccupazione era al 18 per cento.  Cinque milioni e 600mila soldati dovevano essere riportati ad una vita civile che non era in grado di riassorbirli nella piena occupazione. Il loro posto in fabbrica era stato preso da lavoratrici che costavano mediamente il 30% in  meno degli uomini e l’industria bellica aveva avuto uno sviluppo che non poteva essere sostenuto in tempo di pace, tanto che i licenziamenti non si fecero attendere.

Le promesse espansioni territoriali furono ridotte e si limitarono a zone già densamente popolate, che non potevano in alcun modo ricevere altra popolazione immigrante.

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I contadini non ricevettero le terre promesse e ciò li spinse verso le grandi città, finendo a rimpolpare quel proletariato già duramente provato. Le donne, che avevano assaporato per la prima volta Italia il brivido dell’indipendenza economica, non fecero valere per tempo il peso contrattuale che avevano assunto, vedendosi progressivamente respingere verso una zona marginale del mondo del lavoro. I socialisti che tanto avevano influito sulla sorte della guerra erano stati duramente colpiti e indeboliti sia nell’ala moderata sia in quella massimalista.

L’aver combattuto al fianco delle potenze occidentali non ci aveva portato al loro livello di progresso sociale. Il “Maggio radioso” del 1915 avrebbe dato fondamenta ad un ventennio oscuro e privo di libertà.

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Alba del Fascismo

Nel periodo successivo, tra il 1919 e il 1920, la classe operaia esplose con scioperi, dimostrazioni ed agitazioni a livelli impressionanti nelle fabbriche italiane, contro il taglio degli stipendi e le serrate. Tra le cause di questa ondata di scioperi ci furono la crisi economica conseguente alla guerra appena terminata, ma ebbe un ruolo importante anche il mito della rivoluzione bolscevica e il sogno di fare come in Russia. Agli scioperi causati dalle difficoltà economiche e volti a ottenere migliori condizioni di lavoro e salari più alti, si aggiunsero manifestazioni di contenuto dichiaratamente politico.


Così i due motivi, le richieste economiche e la pressione rivoluzionaria, finirono col mescolarsi e confondersi. Si diffusero parole d’ordine come le fabbriche agli operai e la terra ai contadini. Nel mezzogiorno, gruppi di braccianti tentarono di occupare le terre incolte.

 

Intanto cresceva il partito dei nazionalisti e dei reduci della guerra. La "vittoria mutilata", ovvero il sentimento di scontentezza per l’esito degli accordi di pace di Versailles (l’Italia ottenne il Trentino, l’Alto Adige, la Venezia Giulia, Trieste e l’Istria; restarono invece aperte la questione della città di Fiume e quella della Dalmazia) trovò un ottimo portavoce in Gabriele D’Annunzio. I reduci della Prima Guerra mondiale videro che il loro ruolo non era valorizzato dallo Stato.

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Le preoccupazioni della classe politica liberale allora dominante erano sostanzialmente due: fermare il revanscismo dei dannunziani e prevenire in ogni modo la possibilità di una rivoluzione comunista, del tipo di quella avvenuta in Russia pochi anni prima. La seconda preoccupazione era particolarmente sentita anche dagli industriali e dai possidenti agricoli, che detenevano gran parte delle ricchezze del paese. La cronica indecisione dei governanti italiani fece il resto.

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L’Italia si trovò di fronte ad un bivio, e scelse la tragica strada del Fascismo, credendo portasse lontano, verso il Progresso ed un Futuro migliore.

 

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