|
|||
|
|||
|
|||
L’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914, ad
opera dello studente serbo Gavrilo Princip, costato la vita all’arciduca ed
erede al trono asburgico, Francesco Ferdinando, e a sua moglie Sofia, fu la
miccia che fece esplodere la "polveriera" Balcani, dove le regioni
slave sottomesse all’impero Austro-Ungarico stavano maturando sentimenti
irredentisti volti alla conquista dell’indipendenza. A sua volta, l’Austria - Ungheria era una
potenza sempre più in crisi ed in declino che, già provata dall’espansione
della Germania e dalle sconfitte subite dall’Italia, nel corso delle guerre
d’Indipendenza, si vedeva ora minacciare anche i territori balcanici, sotto
la spinta destabilizzante di una Serbia accusata di favorire il malcontento delle
popolazioni slave suddite di Vienna. L’uccisione dell’erede al trono era dunque una provocazione che non
poteva essere lasciata impunita e, anche se solo dopo la guerra si ebbero
conferme del legame tra Princip ed ambienti sovversivi serbi, vicini al governo,
all’impero di Francesco Giuseppe sembrò giunto il momento di liquidare il
problema Serbia, contro cui fu lanciato un ultimatum dalle condizioni
durissime ed umilianti. Sebbene le autorità di Belgrado, pur di evitare lo scontro armato ed
il sicuro annientamento, mostrarono la disponibilità ad accettare gran parte
delle clausole, la risposta fu ritenuta insoddisfacente e così l’Austria,
dopo essersi assicurata l’appoggio dell’impero tedesco, il 28 luglio 1914,
dichiarò guerra alla Serbia, scatenando l’inferno in un‘ Europa allora
caratterizzata da delicati meccanismi di alleanza militare tra i vari stati,
figli degli eventi e delle tensioni maturatesi negli anni precedenti: se gli
Austro-Ungarici erano forti del legame con il reich tedesco di Guglielmo II,
a difesa della Serbia scesero in campo la Russia zarista e la Francia,
mentre, invece, l’Italia, legata agli imperi centrali da un trattato
difensivo, e che dunque prevedeva l’intervento solo in caso di aggressione,
appellandosi al fatto che era stata l’ Austria ad attaccare, senza neppure
consultarla, si dichiarò neutrale. La cartina
d’Europa allo scoppio della prima guerra mondiale Quello che, nelle intenzioni di tutti, doveva essere un conflitto di
stampo ottocentesco e, quindi, di breve durata, si tramutò, viceversa, da semplice
questione austro-serba, in una tragedia sempre più ampia, fino ad assumere,
per il numero di paesi coinvolti, una dimensione, prima europea e poi
mondiale: dopo gli avvenimenti di Sarajevo, infatti, nel giro di poche
settimane, l’Europa intera dimenticò i fasti della "belle époque" e
si trovò coinvolta in prima linea, con l’unica eccezione del nostro paese. Allo scoppio delle ostilità, nel giugno del 1914, il regno d’Italia,
legato ad Austria e Germania da un trattato difensivo, dichiarò la propria neutralità,
in quanto era stato proprio l’impero di Francesco Giuseppe a scatenare la
guerra, senza, peraltro, nemmeno consultare la giovane monarchia di Vittorio
Emanuele III. La scelta operata consentiva di prendere tempo per decidere il da
farsi e, nel contempo, permetteva di sganciarsi dal rapporto instaurato,
negli anni precedenti, con una nazione che rimaneva pur sempre il nemico
storico e, come tale, invisa alla popolazione. Per tutto il periodo che ne seguì, il paese fu travolto dal contrasto che
nacque, sempre più ampio ed incontenibile, tra interventisti e neutralisti;
la lotta fu aspra: a favore della neutralità si schierò la stragrande
maggioranza del parlamento, tra cui i giolittiani, i cattolici e i
socialisti, convinti che fosse più conveniente ottenere dall’Austria
concessioni territoriali, in cambio della non belligeranza; favorevoli
all’intervento furono, invece, gli irredentisti e personalità come D’annunzio
e l’allora direttore dell’"Avanti" Benito Mussolini, tutti convinti
che fosse giunto il momento di completare l’annessione delle terre
"irredente"ancora sotto dominazione austriaca. Particolare attenzione merita, in questo contesto, la figura del
futuro duce: iscritto al partito socialista, direttore
dell’"Avanti", passò dal sostegno alla causa neutralista, al più
acceso interventismo, che gli provocò, nel novembre 1914, l’espulsione da un
partito che più di ogni altro si stava battendo per impedire l’ingresso in
guerra dell’Italia. Dopo l’allontanamento subito, Mussolini si attestò su posizioni di
stampo nazionalista, confermando tutto il suo appoggio per la politica di
intervento, sostenuta, con veemenza, dalle pagine del Popolo d’Italia, il
giornale da lui fondato a Milano, il 15 novembre 1914. Fu
l’episodio chiave nella vita di un uomo che avrebbe sconvolto i destini di un
paese, destinato, nel giro di pochi anni, a cadere preda di una terrificante
e spietata dittatura, che trasse le sue fondamenta proprio dagli eventi
legati al conflitto tra interventisti e neutralisti, e proprio dalla
conversione politica che ne seguì, che lo portò a diventare la futura guida
del movimento fascista. Anche grazie alla trascinante arte oratoria di D’Annunzio, che
infiammò le folle con discorsi esaltanti la lotta per Trento e Trieste, la
stampa italiana sposò decisamente la causa interventista, che ottenne
consensi sempre più ampi, fino ad arrivare a conquistare i favori del re e
del governo presieduto da Salandra; muovendosi sul filo della diplomazia,
dopo aver cercato, invano, nonostante le pressioni tedesche, di ottenere, da
Vienna, in via pacifica, le terre irredente (il ministro degli esteri
asburgico Burian dichiarò testualmente: "Se qualcuno mi punta una
pistola scarica, non gli do il mio portafoglio, ma prenderò una decisione
quando la pistola sarà carica"), rappresentanti del governo firmarono,
il 26 aprile 1915, a Londra, un patto d’alleanza con le forze dell’Intesa,
con il quale l’Italia si impegnava ad entrare in guerra, in cambio del
riconoscimento dei diritti su Trentino, Alto Adige, Trieste, Istria e
Dalmazia. La vittoria del conflitto avrebbe, dunque, permesso di coronare i
sogni irredentisti di Unità nazionale di ottenere il controllo sull’
Adriatico e l’espansione verso i Balcani. I progetti del governo Salandra
erano condivisi anche da Vittorio Emanuele III, che, dopo una iniziale
prudenza, avallò la decisione di intervenire in quella che appariva, anche ai
suoi occhi, come una sorta di IV guerra d’Indipendenza. Si trattava, ora di
trovare il modo di scavalcare un parlamento ancora schierato su posizioni
neutraliste e il cui rifiuto di ratificare il patto di Londra, indusse il
Salandra alle dimissioni. Di fronte alle crescenti e sempre più violente manifestazioni
interventiste, il re decise di richiamare il Salandra, che riuscì
nell’intento di ottenere, da un parlamento scosso dai tumulti e timoroso di
contrastare le decisioni del re, poteri straordinari e, di fatto,
l’autorizzazione all’entrata in guerra. La partecipazione al conflitto fu,
quindi, di fatto, decisa, senza il consenso parlamentare e per volontà di due
sole persone, il re e il presidente del consiglio. Il 24 maggio 1915, dopo la dichiarazione di guerra all’impero
Austroungarico del giorno precedente, il nostro esercito era già in marcia
verso il confine. Allo scoppio della guerra il capo di stato maggiore dell’esercito,
Luigi Cadorna, si diceva certo di una rapida conclusione delle ostilità,
attraverso una serie di "spallate" che avrebbero travolto le truppe
austro-ungariche. Tuttavia, fin dall’inizio la realtà fu ben diversa: infatti
il confine tracciato nel 1866, al termine della III guerra d’indipendenza,
non era stato studiato, dal governo di Vienna, in modo superficiale. Infatti,
aveva lasciato all’Austria il controllo dei passi e delle vette, fortificati
con un complesso apparato di trincee e camminamenti difensivi. Gli Italiani si trovarono così a combattere in condizioni di svantaggio,
anche perché la superiorità numerica delle forze regie era vanificata da
armamenti antiquati e non all’altezza.
Di contro, le armate asburgiche, pur inferiori quantitativamente,
erano di gran lunga superiori qualitativamente e meglio organizzate, sia pure
con tutte le difficoltà derivanti dalla loro natura multietnica. Per tutti questi motivi e per l’insensata tattica di Cadorna, disposto
a qualsiasi sacrificio di uomini, per raggiungere i fini sperati, l’esercito
italiano, lanciato dal comando supremo all’assalto frontale del nemico, in
ben undici battaglie sul fiume Isonzo, ebbe a lamentare un numero di perdite
spaventoso, con l’unico risultato concreto della conquista di Gorizia, cui
fece seguito, un vano e sanguinoso tentativo di avanzata verso Trieste,
bloccato dalle imperforabili linee difensive austriache. Le già dure sofferenze della guerra di posizione furono accentuate
dalla natura impervia del fronte, che determinò combattimenti in condizioni
ai limiti della follia, tra neve, ghiaccio e passi alpini inaccessibili; i
problemi logistici che ne seguirono obbligarono i reparti del genio a
ricorrere ad espedienti di ogni genere per consentire lo spostamento di truppe e mezzi a quelle quote. I propositi del comando supremo, di una conclusione della guerra prima
dell’inverno, si rivelarono, tragicamente, infondati , ed anzi furono gli
Austriaci a prendere l’iniziativa, lanciando, nel 1916, la
"Strafexpedition", la spedizione punitiva contro l’alleato
traditore, ideata dal feldmaresciallo Conrad, che fece breccia tra le
linee italiane ad Asiago; tuttavia, la strenua
resistenza e il coraggio e l’impegno dei reparti
italiani riuscirono, miracolosamente, a contenere il nemico e a respingerlo,
a prezzo del solito, tremendo, numero di caduti. Nonostante il coraggio dimostrato, il pesante tributo di sangue, le
inutili perdite, le drammatiche condizioni di vita, determinarono, tra le
truppe regie, non pochi episodi di insubordinazione , stroncati, con il
consueto cinismo, dai vertici militari capeggiati da Cadorna, con centinaia
di fucilazioni e con la tattica delle decimazioni; nel Carso, tra i monti
dell’Adamello, dunque, si continuava, con spietata perseveranza, a morire,
vanamente, a fiumi, non solo per mano nemica, ma anche per volontà dei
tribunali militari e per opera dei plotoni di esecuzione, in un indicibile
clima di terrore e violenza, tale da minare ogni resistenza psico-fisica. Il 24 ottobre 1917 gli Austriaci, forti dei rinforzi provenienti da
Est, dopo la dissoluzione dell’esercito russo, lanciarono, con l’ausilio di
reparti scelti dell’esercito del Reich, una violenta offensiva nella zona di
Caporetto, travolgendo le linee italiane, nonostante la strenua resistenza
delle nostre truppe, sfondando il fronte e dilagando nelle retrovie. Le nostre truppe non ressero l’urto delle 37 divisioni comandate dal
generale von Below, che fecero incetta di prigionieri e di armamenti; in pochi
giorni, tutto il Friuli venne invaso e
la stessa Venezia sembrava in pericolo, sotto la pressione di un nemico che
sembrava inarrestabile. Lo sfondamento di Caporetto non fu colpa delle truppe. L’Italia scese in guerra il 24 maggio 1915 con un armamento ancora
deficitario: mancavano le artiglierie pesanti e relativo munizionamento,
pochi erano i medi calibri e di scarsa gittata, mancavano le mitragliatrici e
soprattutto mancavano le scorte di proiettili d’artiglieria necessarie a
rimpiazzare i pesanti consumi che necessitavano ad ogni offensiva e che
superavano la capacità produttiva dell’industria bellica. Nelle condizioni in cui si
venne a trovare l’esercito italiano, nessun esercito al mondo, messo nelle
medesime condizioni, avrebbe potuto
evitare quel che accadde. La tesi di Cadorna, che addossava alle truppe la causa dello
sfondamento, va ribaltata, perché da un accurato esame dei fatti, dedotti
dagli ordini di marcia dei vari reparti, si evince che alla base di tutto ci
fu la grossa mancanza da parte degli alti comandi di non aver previsto in
tempo ed organizzato un passaggio dallo schieramento offensivo a quello
difensivo. Il non aver pianificato per tempo uno schieramento difensivo, in
modo che i vari reparti sapessero come ri-schierarsi in tempi ridotti, fece
sì che il "fattore sorpresa" avesse successo. Inoltre l’esito della
rivoluzione russa nell’estate del 1917 cambiò tutto lo scenario militare
delle forze belligeranti in Europa: l’Intesa perse in poco tempo milioni di
forze combattenti e resero disponibili agli Imperi centrali numerose unità da
schierare di nuovo sui fronti italiano ed occidentale. Il comando Italiano
non seppe valutare questo cambiamento e di conseguenza non prese alcuna
misura che la nuova situazione richiedeva. A Caporetto gli Austro-tedeschi attaccarono con 14 divisioni contro 3
divisioni italiane (da considerare che gli effettivi di una divisione
austro-tedesca superavano di un terzo gli effettivi di una divisione
italiana). Il fatto che si pensasse ad una reazione di controffensiva dimostra
sopra ogni dubbio che la valutazione dei nostri comandi circa lo spirito
combattivo delle nostre truppe era più che buona e non giustifica la
successiva denigrazione addossata ai combattenti. Nei giorni che precedettero l’attacco austro-tedesco, notizie
dettagliate portate da disertori diedero sufficienti motivi per correre ai
ripari, ma in realtà la reazione dei nostri comandi fu confusa, movimentando
numerosi reparti all’insaputa di altri e creando discontinuità delle forze
schierate. La ridislocazione dei reparti richiedeva una ricognizione del fronte
e accordi con i reparti a fianco,
richiedeva, insomma, tempo che in realtà venne a mancare. Le artiglierie, per
la mancanza cronica di colpi, non potevano inquadrare i bersagli e potevano
intervenire solo su espresso ordine degli alti comandi, cosa disastrosa in
caso di difesa. La mancanza dei collegamenti e l’organizzazione verticistica del
nostro esercito su cui Cadorna esercitava un controllo assoluto faceva sì che
gli ordini emessi fossero già superati dagli eventi . In tutti i combattimenti, le truppe italiane si difesero strenuamente
e combatterono con valore. L’offensiva austro-tedesca divise in due lo
schieramento italiano: da una parte la 2° e la 3° armata, dall’altra il resto
del nostro esercito schierato verso Trieste. Se pensiamo oggi che la maggior
parte dell’esercito riuscì ad arretrare sino al Tagliamento prima e a
rischierarsi sul Piave poi, dal Grappa al mare, dobbiamo convenire che fu
grazie alla tenace resistenza opposta dalle truppe, prive di coordinamento e
di informazioni... E questo esalta
ancor di più il loro valore. Non fu la mancanza resistenza delle truppe o il loro scarso valore
morale, come prontamente avallato dalla casta militare, ma fu piuttosto una cecità
del comando, unita a una pessima visione strategica e tattica, che impedì di
prevedere gli sviluppi generati dalla resa russa. Sul Piave fu un'altra cosa, che continuò la storia di eroismo e di
sacrificio del combattente italiano. Proprio quando l’Italia sembrava sul punto di cedere, avvenne però il
miracolo: in tutto il paese si formò uno straordinario spirito di coesione nazionale
ed anche i socialisti, da sempre contrari al conflitto, diedero tutto il loro
appoggio per fronteggiare il nemico, contribuendo alla nascita di un governo
di unità nazionale alla guida di Vittorio Emanuele Orlando, che lanciò, alla
nazione, il vigoroso appello a "resistere" ad ogni costo. Nel contempo il re decise di sostituire Cadorna con Armando Diaz e la
scelta si rivelò giusta: il nuovo comandante dimostrò, a differenza del
Cadorna, una grande sensibilità ed attenzione per la condizione delle truppe,
cui venne riservato, finalmente, un adeguato trattamento; Diaz decise anche
di porre fine alla scriteriata tattica degli assalti frontali, serviti
soltanto a distruggere il morale dei soldati, che si vedevano considerati,
dagli alti comandi, come degli agnelli sacrificali. Grazie alle sue doti di profonda umanità, Diaz riuscì a risollevare le
sorti di un esercito che, dopo il 24 ottobre, era prossimo alla liquefazione
e che ora, ricostituito in tutta la sua vitalità e potenziato dai rinforzi
alleati, sembrava in grado di contrastare l’avanzata nemica, come,
effettivamente, fece. Schierati sulla linea del Piave, gli Italiani il 15 giugno 1918, nella
cosiddetta battaglia del solstizio, dopo aver respinto i numerosi assalti
nemici, obbligarono le armate austro-tedesche, alla ritirata, come indicato,
la sera del 23 giugno, dal generale Diaz nell’annuncio di una vittoria
("Dal Montello al mare, il nemico, sconfitto e incalzato dalle nostre
valorose truppe, ripassa in disordine il Piave") che, di fatto, impedì
l’invasione e la conseguente sconfitta dell’Italia; dopo la batosta subita,
infatti, gli Imperi Centrali, esausti e distrutti nel morale, non furono più
in grado di assumere, sul fronte italiano, alcuna iniziativa. L’onta, l’umiliazione di Caporetto erano state, dunque, finalmente e
definitivamente cancellate. Il trionfo ottenuto esaltò il genio militare di
Diaz, dimostratosi valido stratega in una battaglia costata la vita a 250.000
persone; inoltre, esso mise in luce i nuovi reparti d’assalto dell’esercito
italiano, gli "Arditi", che contribuirono non poco, con le loro
incursioni, a sconfiggere il nemico. Il Piave divenne, da allora, il simbolo dell’estremo sacrificio in
nome di una patria salvata dalla tenacia e dal coraggio di decine di migliaia
di combattenti, tra cui spiccavano i "ragazzini" della classe del
1899, chiamati alle armi per riempire i paurosi vuoti causati da tre anni di
massacri e mattanze. L’emblema della vittoria, da cui trasse origine la celebre canzone e
il famoso detto "non passa lo straniero", divenne una casa
diroccata e semidistrutta, recante una scritta destinata ad entrare nella
leggenda: "Tutti eroi! O il Piave o tutti accoppati". Dopo
aver fermato l’avanzata degli imperi centrali, con le truppe di questi ultimi
ormai impotenti e sulla difensiva, tutto sembrava pronto per un attacco volto
a riconquistare i territori occupati e a spezzare, definitivamente, le linee
austro-tedesche, debilitate dalle paurose perdite subite nella battaglia del
Piave ed in crisi pure sul fronte occidentale. I contrasti multietnici dell’esercito asburgico (formato da austriaci,
ungheresi, croati, boemi, sloveni polacchi e bosniaci), anche a causa dalla
difficile situazione militare, si stavano sempre più accentuando, provocando
il progressivo sfaldamento dello stesso. Diaz, tra il 24 e il 27 ottobre, ad un anno esatto dalla disfatta di
Caporetto decise di lanciare la controffensiva finale: al termine di due
giorni di aspri combattimenti, resi difficili dalle continue piogge, che
avevano contribuito ad ingrossare le acque del Piave, i soldati italiani,
dopo un primo momento di difficoltà, furono in grado di attraversare il fiume
e di avere la meglio sulla vigorosa resistenza nemica; il massiccio attacco
in forze condusse l’esercito regio fino a Vittorio Veneto, ove conquistò la
vittoria decisiva, travolgendo e tagliando in due le armate di un impero che
di fatto aveva già cessato di esistere come entità politica; Trento e Trieste
vennero liberate e, ad un’Austria - Ungheria, ormai in piena dissoluzione,
non restò altro che chiedere l’armistizio. Il 4
novembre, il giorno della Vittoria:
con un'offensiva iniziata il 24 ottobre del 1918, ad un anno esatto dal
disastro di Caporetto, l'esercito italiano vince la prima guerra mondiale. L'armistizio firmato a villa Giusti, presso Padova, il giorno 3, da
Pietro Badoglio e dal generale austriaco, Victor Weber von Webenau , fissa
infatti alle ore 15 del giorno 4 novembre 1918 la cessazione delle ostilità.
Il comandante Diaz fu in grado, quindi, di dare lettura del bollettino della
vittoria, che pose fine ad una guerra costata, al nostro paese, ben 700.000
vittime. Nel 1919, dopo la sconfitta
subita dalla Germania nella prima guerra mondiale, i rappresentanti degli
stati vincenti si riunirono a Versailles per stabilire le condizioni di pace.
Parteciparono ai negoziati (da sinistra a destra nella foto) Lloyd George,
primo ministro britannico, Giorgio Sidney Sonnino, ministro degli Esteri
italiano, Georges Clemenceau, primo ministro francese, e il presidente degli
Stati Uniti Woodrow Wilson. La delegazione italiana si presentò a Versailles con grandi speranze,
dettate dal decisivo ruolo che l’Italia aveva avuto nella sconfitta degli
imperi-centrali, ma ben presto ci si rese conto che il clima della conferenza
di pace non era tra i più favorevoli: i nostri delegati, che si aspettavano
l’applicazione del trattato di Londra del 1915, si scontrarono contro
l’ostruzionismo del presidente americano Wilson, poco propenso a riconoscere quanto era stato promesso al nostro paese ed, in
particolare, l’annessione della Dalmazia e della città di Fiume, che, nel
1918, si era proclamata italiana. Di fronte alla fermezza di Wilson, Orlando e Sonnino, sdegnati ed
irritati, abbandonarono i lavori, un gesto che ebbe conseguenze disastrose
poiché, quando si trattò di decidere le sorti delle colonie tedesche, queste
furono spartite tra le altre potenze, mentre l’Italia venne ignorata. Il regno di Vittorio Emanuele III si vide riconoscere il Trentino,
l’Alto Adige, l’Istria e Trieste, ma non la Dalmazia e Fiume, che sarebbe
stata occupata, nel 1919, con un colpo di mano, da una spedizione guidata da
D’Annunzio, alla testa dei suoi legionari. L’umiliazione subita dai nostri delegati, a Versailles, creò, nel
paese, già debilitato dalla crisi economica post-bellica, un clima di grande
frustrazione e irritazione, alimentando la tesi della cosiddetta
"vittoria mutilata", di un inutile sacrificio di morte e
distruzione, vanificato dal tradimento delle altre potenze vincitrici. Modifiche sociali conseguenti alla guerra In cifre la guerra era costata 700.000 morti e 1 milione di feriti tra
cui 450.000 grandi invalidi. Il debito pubblico era aumentato da 15 miliardi
di lire del 1915 a 69 del 1918. L’inflazione era cresciuta nell’ordine delle
10-12 volte rispetto al periodo prebellico. La disoccupazione era al 18 per
cento. Cinque milioni e 600mila
soldati dovevano essere riportati ad una vita civile che non era in grado di
riassorbirli nella piena occupazione. Il loro posto in fabbrica era stato
preso da lavoratrici che costavano mediamente il 30% in meno degli uomini e l’industria bellica
aveva avuto uno sviluppo che non poteva essere sostenuto in tempo di pace,
tanto che i licenziamenti non si fecero attendere. Le promesse espansioni territoriali furono ridotte e si limitarono a
zone già densamente popolate, che non potevano in alcun modo ricevere altra
popolazione immigrante. I contadini non ricevettero le terre promesse e ciò li spinse verso le
grandi città, finendo a rimpolpare quel proletariato già duramente provato.
Le donne, che avevano assaporato per la prima volta Italia il brivido dell’indipendenza
economica, non fecero valere per tempo il peso contrattuale che avevano
assunto, vedendosi progressivamente respingere verso una zona marginale del
mondo del lavoro. I socialisti che tanto avevano influito sulla sorte della
guerra erano stati duramente colpiti e indeboliti sia nell’ala moderata sia
in quella massimalista. L’aver combattuto al fianco delle potenze occidentali non ci aveva
portato al loro livello di progresso sociale. Il “Maggio radioso” del 1915
avrebbe dato fondamenta ad un ventennio oscuro e privo di libertà. Nel periodo successivo, tra il 1919 e il 1920, la classe operaia
esplose con scioperi, dimostrazioni ed agitazioni a livelli impressionanti
nelle fabbriche italiane, contro il taglio degli stipendi e le serrate. Tra
le cause di questa ondata di scioperi ci furono la crisi economica
conseguente alla guerra appena terminata, ma ebbe un ruolo importante anche
il mito della rivoluzione bolscevica e il sogno di fare come in Russia. Agli
scioperi causati dalle difficoltà economiche e volti a ottenere migliori
condizioni di lavoro e salari più alti, si aggiunsero manifestazioni di
contenuto dichiaratamente politico.
Intanto cresceva il partito dei nazionalisti e dei reduci della
guerra. La "vittoria mutilata", ovvero il sentimento di
scontentezza per l’esito degli accordi di pace di Versailles (l’Italia
ottenne il Trentino, l’Alto Adige, la Venezia Giulia, Trieste e l’Istria; restarono
invece aperte la questione della città di Fiume e quella della Dalmazia)
trovò un ottimo portavoce in Gabriele D’Annunzio. I reduci della Prima Guerra
mondiale videro che il loro ruolo non era valorizzato dallo Stato. Le preoccupazioni della classe politica liberale allora dominante
erano sostanzialmente due: fermare il revanscismo dei dannunziani e prevenire
in ogni modo la possibilità di una rivoluzione comunista, del tipo di quella
avvenuta in Russia pochi anni prima. La seconda preoccupazione era
particolarmente sentita anche dagli industriali e dai possidenti agricoli,
che detenevano gran parte delle ricchezze del paese. La cronica indecisione
dei governanti italiani fece il resto. L’Italia
si trovò di fronte ad un bivio, e scelse la tragica strada del Fascismo,
credendo portasse lontano, verso il Progresso ed un Futuro migliore. |